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Come tutti sapete il 14 maggio del 2000 la Torres conquistava la C1 a Mestre.

Stiamo lavorando in queste settimane per uno speciale 20 anni dopo che racconti quel traguardo con alcuni protagonisti che vivono lontano da Sassari. Ma quella di oggi è una data che vogliamo ricordare, tutti insieme, e che si intreccia in maniera indissolubile ai colori rossoblù. Qualche giorno fa, infatti,  abbiamo ricevuto una richiesta. Ed è stato un colpo al cuore.

Le parole che  vi invitiamo a leggere sono di Alessandro Fracassi, il cugino di Gabriele, un bambino innamorato della Torres che in quel sogno ci ha creduto prima di tutti ma non ha potuto gioire insieme con il suo papà, tifoso come lui, e con la sua famiglia.

Cia Gabri, anche da tutti noi.

 

Sassari, 22 aprile 2000. Facce tirate, qualche timido applauso. Niente di più. Lo stadio Acquedotto si svuota, lo fa lentamente e in un silenzio quasi surreale per un pubblico caldo come quello sassarese. La curva nord non intona i soliti cori di incitamento verso la squadra, come se avesse il timore di rompere attimi di profonda riflessione. Attimi che sanno tanto di occasione persa. Si allontana il sogno C1 per la città e per la Torres. Il pareggio a reti bianche con la Triestina serve a poco o nulla. A tre giornate dalla fine infatti, la classifica è quasi una sentenza: Rimini 60, Triestina e Torres 58. Le avversarie da battere sono addirittura due: con la capolista, la Torres ha il vantaggio degli scontri diretti ma non con i giuliani (pesa il roboante rovescio per 4-1 al “Nereo Rocco”). Le speranze sassaresi sono ridotte a un lumicino. Per molti ma non per tutti. “Ba’, secondo me vinciamo il campionato”. Quelle poche parole spezzano la tangibile delusione che abita da qualche minuto la tribuna stampa. A pronunciarle è Gabriele, undicenne sassarese cresciuto a pane, calcio e sofferenze.

Cardiopatico dalla nascita, con alle spalle interventi al cuore e visite specialistiche di ogni natura, Gabriele è innamorato della vita in tutte le sue molteplici forme. Ma c’è qualcosa che ama in misura ancora maggiore: il calcio. È innamorato della sua Sassari, della sua Torres. Una passione, quella per i colori rossoblù, tramandatagli dalla famiglia. La Torres in casa Spanu è molto più di una squadra di calcio: è un’istituzione, è una passione che non conosce né tempo né spazio, è un rigoroso rito domenicale che coinvolge tutti in famiglia, dal più piccolo al più grande. Lo è per il padre Francesco, membro dello storico gruppo ultras “Panthers” a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Lo è per gli zii Antonio, Sergio e Giuseppe. La Torres è un sorriso contagioso, è stringersi in abbracci infiniti, è la diretta radiofonica delle partite su Radio Venere o un salto di gioia nel vedere i risultati al televideo. La Torres è condivisione. È amore.

Eppure, in quella giornata in cui la delusione sportiva è cocente, la tenacia per un sogno che sfugge di mano è tutta sua. Lui, Gabriele, è l’unico a non gettare la spugna. Lo ripete con convinzione al padre e a tutti i presenti: “Saliamo in C1”. Lo fa con un sorriso che quasi squarcia il cielo sassarese. Lo fa ammirando lo stadio per intero. Lo fa immaginando cosa potrebbe accadere su quel terreno e su quelle tribune nelle successive settimane. Chiude gli occhi e costruisce nella sua mente, tanto fantasiosa quanto innocente, l’immagine di una Sassari festante per la sua Torres.

Ormai l’Acquedotto è vuoto. Sono passate da poco le 17. Gabriele sembra non volersene andare. Fosse per lui dormirebbe in tribuna, tra i seggiolini rossoblù. Possibilmente con un pallone al fianco. Il padre Francesco però lo rassicura: “Dai Gabri che ci aspettano Mamma e Simone (il fratello minore, ndr). Tanto tra due settimane siamo di nuovo qui con la Vis Pesaro”. “Ok Ba’, arrivo”. Padre e figlio si abbracciano, scherzano tra loro e si dirigono verso l’uscita. Gabriele scende le scale della tribuna coperta e volge, ancora una volta, lo sguardo al campo. Sarà l’ultimo.

La storia del ragazzo di San Giovanni, campagna sassarese, e della Torres hanno spesso viaggiato in parallelo. Storie di sport e di vita complicate, intrise di continui alti e bassi ma conclusesi sempre con un happy end. Agli albori dell’estate 1993 Gabriele mette in mostra tutta la forza di cui dispone e supera brillantemente un complicato intervento cardiochirurgico. Nello stesso periodo la Torres, dopo un’affannosa rimonta, regala al suo tifoso e al padre Francesco una delle gioie calcistiche più grandi che la Sassari sportiva ricordi: lo spareggio di Roma, allo Stadio Flaminio, con L’Aquila. Il trionfo, gli abbracci e la promozione in C2. Un’unica delusione maturata sul campo: l’eliminazione alla semifinale playoff 1996 ad opera dell’Alzano Virescit per il ritorno in C1. La voglia di tornare in alto c’è, la squadra anche.  È la Torres del nucleo sardo composto da Tore e Seba Pinna, da Antonio Langella, Stefano Udassi e Luca Panetto. Ma anche di Riccardo Chechi, jolly difensivo con un piede più che educato sui piazzati. Di Luca Amoruso, classe 1975, fratello del più celebre Nicola e di Theo Karassavidis, la stella greca della squadra. Un complesso tecnico di assoluto valore, ligio al dovere, diretto magistralmente da Lamberto Leonardi. Tutti a Sassari lo conoscono come Bebo. Nel 1987, con interpreti di valore oltre la media quali Angelo Del Favero, Mario Piga e Gianfranco Zola, guidò la Torres alla promozione in C1. Scaramantico, preciso, diretto. Anche lui non molla di un centimetro. Finché la matematica non lo condanna, Bebo ci prova. Il celebre maglione blu, che sia pioggia o afa, lo indossa sempre. Non si sa mai. Sono le sliding doors del destino.

“Gabri hai messo tutto nello zaino? Dai, sbrigati! Don Conti ci sta aspettando”. “Ok Ba’, scendo. Lo posso portare il pallone?”. “Portalo ma vedi di non starci appiccicato come tuo solito”. “Va bene, chiedo ai professori se possiamo giocare dopo pranzo”. “Ok. Mi raccomando: non affaticarti e quando sei stanco fermati, ok amore mì?”. “Ok Ba’, non vedo l’ora di partire”. 28 aprile 2000: Museo dei Menhir, parco di Laconi, rovine del castello degli Aimerich. Bellissimo, tutto interessante. Tutto affascinante ma nei pensieri di Gabriele la gita scolastica nell’oristanese è l’occasione per liberarsi dalle catene delle preoccupazioni. È una corsa senza freni verso la felicità che, quasi sempre, fa rima con pallone. Il campo dell’asilo infantile di Villaurbana è, nei pensieri della classe, una versione arrangiata dello stadio Acquedotto. Viene simulata Faenza-Torres che si disputerà due giorni dopo. Gabriele segna, esulta, si lascia andare alla più sfrenata delle gioie quando il sole abbagliante di quel 28 aprile lascia spazio al vuoto. Sono le 15.30. Il conto alla rovescia verso l’oblio va di pari passo con i battiti del cuore malato di Gabriele. Prima tre, poi due, poi uno. Il tempo si ferma. Una sensazione di smarrimento viaggia rapida da Villaurbana e giunge fino a Sassari. Il vento soffia piano, adagio. La percezione è che nulla sarà più come prima. Neanche per i rossoblù che vincono a Faenza con i gol di Karassavidis e Amoruso e tengono vive le speranze di promozione proprio negli attimi in cui Gabriele si allontana, sempre di più, dalla vita. Si volge, per uno sguardo. L’ultimo. E saluta tutti: la sua Sassari, la sua Torres e chi lo ha amato.

7 maggio 2000. Ore 14.15, Torres-Vis Pesaro. C’è aria di impresa a Sassari e la città risponde presente. Fin dalle prime ore del mattino, Sassari è rossoblù ovunque. Una fiumana di 7.000 e più anime farà vibrare l’Acquedotto per una partita che significa molto per Sassari e il futuro della Torres. Non basta vincere: servono due miracoli dagli altri campi. La capolista Rimini non deve fare risultato in casa con il Castel San Pietro mentre a Gubbio i padroni di casa devono stoppare la voglia di promozione della Triestina. Le aree adiacenti l’Acquedotto sembrano ribollire di passione quando Francesco arriva, con anticipo, allo stadio. L’auto è sistemata nel solito parcheggio a spina di pesce, in Via Romita. La camminata verso la tribuna è lenta, stanca. L’ex Panthers stavolta è solo. Fedele e beffardo compagno di quel pomeriggio è il dolore immenso che alberga nella sua anima. I gesti sono meccanici, la voglia di parlare è un ricordo lontano e sbiadito. Gli occhiali da sole mascherano un pensiero fisso: quello sguardo, intriso di tenerezza, volato via. Quelle soffici mani adolescenziali che hanno accarezzato il suo volto e che trovavano nelle sue, più attempate e segnate dalle esperienze, il rifugio dalle paure di una vita in costante bilico.

È la Torres l’unica cura in grado di abbattere tutti i mali. È l’unico antidoto capace di strappare un sorriso a un padre ferito nel profondo. La Torres attacca a testa bassa e alla metà esatta del primo tempo è Karassavidis a far esplodere Sassari. È un boato liberatorio quello che accompagna l’1-0 rossoblù. L’urlo di Francesco è un misto di lacrime e rabbia, è la disperata ricerca del contatto fisico con amici, conoscenti e parenti presenti in tribuna. È l’illusione di trovare frammenti tangibili del figlio Gabriele negli abbracci altrui, di sentire nell’aria un profumo di innocenza che sembra calzare alla perfezione il suo nome. Passano i minuti e le parole che il piccolo sassarese pronunciò solo due settimane prima, riecheggiano tra i ricordi di Francesco assumendo sempre di più i contorni della realtà, dell’apoteosi. Il Castel San Pietro ha segnato a Rimini. La capolista è sotto così come la Triestina che perde a Gubbio. Il tempo passa inesorabile, la sofferenza cresce. La Torres difende il minimo vantaggio con unghie e denti. È il novantesimo. Il triplice fischio finale arriva ma l’esultanza è contenuta. Radio accese e a tutto volume: attenzione massima agli ultimi minuti, sia a Rimini che a Gubbio. C’è chi prega. C’è chi, come Francesco, va avanti e indietro nervosamente e senza una metà precisa, nell’attesa che le speranze e i sogni possano materializzarsi. Arrivano i finali, arriva il boato. Uno dei più intensi che la Sassari rossoblù ricordi. Il sorpasso è la realtà. Francesco afferra il giacchetto, guarda il cielo e chiude, per un attimo, gli occhi. Tutto ciò che riesce a fare è un bacio al posto che Gabriele era solito occupare in tribuna. Emozioni, lacrime di felicità mista a dolore. La promozione è a un passo. L’ultimo ostacolo si chiama Mestre.

Sassari, 14 maggio 2000.

L’attesa snervante, il nervosismo del grande appuntamento, il desiderio del primato. Niente più discorsi, è il campo che dovrà dare l’ultima sentenza, senza appello. Come Alessandria 1987, come Roma 1993: Mestre è invasa da sassaresi che colorano la laguna di rossoblù. Sono migliaia, alcuni dicono 5.000 altri addirittura 10.000. L’unica certezza è che sono arrivati in Veneto da tutta l’Italia. Francesco è nella sua abitazione di San Giovanni. Radio a portata di mano. Attese. Speranze. Sono le 15 in punto di una domenica pomeriggio soleggiata che illumina Sassari di una luce abbagliante. Piazza d’Italia è vuota, così come le vie del centro storico. Solo un leggero vento di maestrale muove le migliaia bandiere rossoblù che colorano Corso Vittorio Emanuele. Le successive due ore sono una marcia trionfale: il diagonale di Langella, l’autogol dei padroni di casa e il sigillo finale di Luca Amoruso. Si scatena il delirio. Poco importa se il Rimini ha sbancato il Manconi di Tempio. Sassari torna in C1. La città si colora di rossoblù: Piazza d’Italia e Piazza Castello sono ora invase da tifosi di ogni età e generazione, da caroselli che si propagano dal centro storico fino a Piazzale Segni, davanti all’Acquedotto. Tutta Sassari è in visibilio. Tutta tranne Francesco. Accarezza la lapide del figlio mentre, in sottofondo, è facile udire “la vittoria, si sa, sempri nosthra sarà”. Dopo giorni di silenzio l’ex Panthers, con un filo di voce, bisbiglia quanto è accaduto in quel magico pomeriggio sassarese: “Siamo in C1 amore mio. Siamo in C1”

Chiudo gli occhi. Sono trascorsi 20 anni. Sembra un’eternità. I ricordi, stavolta, risuonano più forti e vivono imprigionati in due istantanee che rimangono impresse nella memoria di una famiglia che non ha dimenticato, che ha superato tragedie di varia natura, che si è sempre rialzata più forte e unita di prima.“Gabri me l’aveva detto. Me l’aveva detto” sono le parole che Francesco sussurra alla sorella maggiore la sera del 14 maggio 2000. I due si stringono in un abbraccio che sembra non avere fine. Sempre più intenso, sempre più avvolgente. Significa io ci sono, noi ci siamo. Siamo con te, tutti. Dal primo all’ultimo. Questa è la Torres: è diffondere l’amore anche quando la vita ti ha voltato le spalle.

Trascorrono inesorabili le ore. La Torres arriva all’aeroporto di Alghero. Ad attenderla, un oceano di bandiere e di tifosi festanti che prendono d’assalto lo scalo algherese lasciandosi andare alla felicità più sfrenata. Dietro la calca umana in delirio, è facilmente notabile quella di un uomo, in disparte, che si gode lo spettacolo. Un uomo che sorride mentre le lacrime cadono copiose sul suo volto. La felicità e il dolore si sfidano a braccio di ferro ma una non riesce mai ad avere la meglio sull’altra. È Francesco. Toglie gli occhiali, lo fa con una calma da fare invidia: il sole della gloria è appena tramontato. Fosse per lui, fermerebbe il tempo a quei pochi ma intensi attimi. Gli stessi che accompagnarono l’ultima volta di Gabriele all’Acquedotto. Volge lo sguardo, un’ultima volta prima di far ritorno a San Giovanni, verso la sua Torres in festa. Va via in un momento particolare. Un momento di estasi collettiva. Se ne va mentre l’intero aeroporto si lascia andare a un canto che per Sassari è storia, è appartenenza, è identità: “la vittoria, si sa, sempri nosthra sarà”. Non potremo mai percepirlo ma Gabriele è ancora con noi. Vive nei raggi di sole che illuminano il cortile della sua casa di San Giovanni. Vive in tribuna al “Vanni Sanna” e nelle esultanze del padre ai gol della Torres. Vive nelle canzoni sassaresi, nelle note di una in particolare: “Puru si no mi drommu o soggu arrasgiunendi, bastha chi sarria l’occi e ti soggu figgiurendi”. Anche se non mi addormento o sto parlando, basta che io chiuda gli occhi e ti vedo. Sei ovunque. Ciao Gabri.

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